Le informazioni disponibili non permettono di chiarire i legami di Emerson, azienda italiana, (proprietà dei figli Borghi/Ignis) con la omologa casa americana (presente sul mercato USA dai primi anni del 1920). Emerson Electronics produceva a Siena e Firenze televisori, radio ed altre apparecchiature elettroniche, quando fini nei gorghi di salvataggio dell'industria di settore, provocati dagli interventi statali da parte REL*. Nel 1985 REL concluse, infatti, un accordo di cooperazione industriale con la Pioneer che aveva, tra altri obiettivi, anche quello di "salvare" la Emerson (già in cassa integrazione con molti suoi dipendenti dal 1980). Il tentativo risultò inutile e seguì le sorti disastrose di uno precedente effettuato dalla proprietà, con la giapponese Sanyo (1977). Con l'acquisto del 34% della Emerson, Sanyo pensava di superare i vincoli doganali imposti dalla Comunità Economica Europea, creando una "testa di ponte" commerciale per i suoi prodotti. Questo tentativo di salvataggio aveva portato al disastro del 1980. Da qui l'avventura REL e la fine dell'attività.
I prodotti radio della Emerson venivano commercializzati anche con il marchio SICART.
SIENA - L' Emerson non verrà salvata, ma ai 345 dipendenti che sono rimasti nell' azienda verrà concessa una proroga della cassa integrazione. E' questa la decisione del ministero dell' Industria che ha respinto le richieste dei rappresentanti degli enti locali e dei sindacati toscani che chiedevano invece il salvataggio della fabbrica e il suo inserimento nella Rel, la finanziaria per l' elettronica. L' Emerson, azienda che ha operato nel settore dell' elettronica civile, è in liquidazione dal mese di ottobre del 1980. Il sottosegretario all' Industria, Sisinio Zito, dopo aver ascoltato gli inviati del Comune e della Provincia di Siena e quelli dei sindacati, ha sostenuto che per l' Emerson non c' è spazio nel piano Rel. Detto questo, il rappresentante del governo ha aggiunto che per i lavoratori dell' Emerson verrà prevista la proroga della cassa integrazione guadagni per altri sei mesi. La situazione dell' Emerson (quattro anni fa quando è stata messa in liquidazione aveva ancora 600 dipendenti) sembra ormai disperata. Fino ad oggi nessun gruppo privato ha mostrato interesse a rilevarla. Soltanto una banca, il Monte dei Paschi, che è di Siena, aveva offerto un aiuto finanziario e aveva inviato suoi rappresentanti all' incontro ministeriale. Ma l' istituto di credito deve recuperare dall' Emerson 4 miliardi di lire ed evidentemente il suo nuovo finanziamento è stato giudicato dal governo insufficiente per garantire all' azienda un futuro.
SIENA (f.c.) - Sarà la giapponese "Pioneer" a salvare la "Emerson Electronics" (due stabilimenti a Siena e Firenze; circa 450 dipendenti in cassa integrazione dal 1980; produzione di apparecchi televisivi). La notizia proviene dalla federazione senese del Partito socialista italiano, che ha diffuso una nota nella quale afferma, tra l' altro, che "il ministero dell' Industria e la Rel hanno sottoscritto con la Pioneer un accordo di cooperazione industriale che prevede alcuni interventi in Italia, tra cui il salvataggio della Emerson". E' stato il sottosegretario all' Industria, il socialista Sisinio Zito, a dare l' annuncio, che è stato accolto con misurato entusiasmo a Siena, dove per cinque anni illusioni e delusioni si sono alternate con ritmo frequente. Torna alla memoria subito una esperienza con un altro grande gruppo giapponese, la "Sanyo", che nel 1977 acquistò il 34 per cento del capitale azionario (mentre l' altro 66 per cento era nelle mani dei fratelli Emidia e Guido Borghi, figli del fondatore Giovanni, che era stato anche padrone dell' "Ignis"). La Sanyo voleva utilizzare la Emerson come testa di ponte in Europa, e soprattutto nella Comunità economica europea, per la commercializzazione dei suoi prodotti. Ma ben presto subentrarono incomprensioni che portarono alla chiusura degli stabilimenti e al concordato preventivo con cessione di beni, nell' ottobre del 1980 e i tentativi successivi di dare respiro alla fabbrica risultarono tutti inutili. "Salvare la Emerson - sostiene Gianfranco Bartolini, presidente della Regione Toscana - significa salvare anche l' unica unità produttiva regionale di elettronica civile".
Giovanni Borghi (Milano, 1910 – Milano, 25 settembre 1975) è stato un imprenditore italiano, fondatore della Ignis, familiarmente detto da tutti "cumenda", in lombardo "commendatore", è stato uno delle figure di maggiore spicco nel panorama industriale della provincia di Varese.
Titolare di una rinomata azienda produttrice di elettrodomestici, in particolare frigoriferi, la Ignis (che gli ha dato grandissima fama) Borghi ha investito moltissimo (sia tempo che denaro) anche nello sport. È stato proprietario della Pallacanestro Varese nel periodo di maggiore splendore della squadra; nel contempo la sua presidenza ha segnato anche i più grandi successi calcistici della squadra del Varese Football Club, che non a caso, proprio a cavallo tra gli anni '60 e '70, ha calcato per anni il palcoscenico della Serie A. Tra gli altri sport ai quali Borghi ha dato il suo prezioso contributo, anche il ciclismo (tra i ciclisti degni di nota della squadra del commendatore, Ercole Baldini) e il pugilato (tra i suoi "pupilli" i celebri Campioni del Mondo Sandro Mazzinghi e Duilio Loi).
Nella canzone "Lui - i borghesi" Giorgio Gaber lo nomina fra gli apostoli di "Lui" insieme ad Agnelli, Pirelli ed altri.
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Per
spiegare che uno negli affari è un caimano, di solito si dice che sarebbe capace
di vendere ghiaccio agli eschimesi. Giovanni Borghi vendeva frigoriferi in
Scandinavia, e questo potrebbe bastare a dare un’idea di che tipo fosse. «In
realtà mio padre ha fatto di peggio. Ha venduto frigoriferi dove i frigoriferi
sono nati: negli Stati Uniti. Ai tempi d’oro, solo in America piazzava 350mila
“pezzi” l’anno». Ai tempi d’oro significa tra gli anni Cinquanta e Sessanta,
quando la fabbrichetta del sciur Borghi - che all’epoca l’Italia e il mondo
conoscevano come “Mister Ignis” - sfornava elettrodomestici al ritmo di uno ogni
otto secondi di lavoro, aveva un fatturato annuo di 40 miliardi (di allora),
diecimila operai, esportazioni in 80 Paesi, stabilimenti da Varese al Sudamerica...
«Diciamo che papà era un uomo famoso: lo conoscevano anche in Giappone, cosa
peraltro che mi ha aperto molte porte nel mio lavoro». Il lavoro di Guido
Borghi, sessant’anni, è diviso tra lo spettacolo e lo sport - presidente della
casa di produzione cinematografica MovieMagic, è ai vertici del gruppo che
gestisce gli ippodromi di Varese e di Roma - così come la vita è divisa tra
Varese («Otto mesi l’anno») e Los Angeles («Quattro mesi, a lavorare e far
studiare le figlie»). Il padre gli ha insegnato tante cose, sulla vita e sul
lavoro, ma una in particolare: «La spregiudicatezza non porta lontano, né nella
vita né nel lavoro».
Giovanni Borghi era un tipo tutto casa e bottega, burbero ma dal cuore grande
così, attaccato all’azienda, fortunato, geniale («Un talento assoluto per il
marketing») ma non spregiudicato. «Credeva moltissimo nel lavoro, ha fatto
l'azienda con le sue mani, un uomo di grande coraggio e di grande fantasia, uno
che ha inventato per primo al mondo il frigorifero a doppia porta con il
freezer, il primo a inventare la lavatrice con la carica dall’alto, il primo a
fabbricare la macchina per fare il ghiaccio, il primo a...».
Il primo a capire che l’Italia stava cambiando, e gli italiani anche. Erano gli
anni del miracolo economico: nuova vita, nuovi bisogni, nuovi prodotti. Giovanni
Borghi ne pensò una vasta gamma, settore elettrodomestici.
«Tutto iniziò al quartiere Isola, dove nacque papà e dove il nonno aveva una
bottega di elettricista, in piazza Minniti, che nel ’43 fu spazzata via dai
bombardamenti. A quel punto la famiglia sfollò a Comerio, vicino a Varese, dove
c’era la casa di campagna. Papà aveva 33 anni». Fu lì che Giovanni Borghi,
partito dall’Isola con un ferro da stiro in mano e un po’ di esperienza in
tasca, si mise a comprare vecchi fornelli elettrici, a ripararli, modificarli,
rivenderli. Fu lì che pensò di trasformare le cucine a legna in cucine
elettriche, sempre più perfezionate. Fu lì che aprì il primo stabilimento. Lì
che nel giro di qualche anno la “Guido Borghi e figli” diventò la Ignis, il
marchio che segnò a fuoco l’industria italiana degli elettrodomestici. Si dice
che il nome a Giovanni Borghi lo suggerì un suo vecchio cliente, che
evidentemente ne sapeva di latino. Il Giuan, che ne sapeva soprattutto di
dialetto, disse solo: “Me pias”.
«Papà era un autodidatta. È andato a scuola fino a dieci anni, giusto il tempo
delle elementari, poi iniziò a lavorare. Fino a dodici-quattordici ore al
giorno, un ritmo che ha tenuto per tutta la vita. Anche quando era già il re dei
frigoriferi, o Mister Ignis, come lo chiamavano tutti, alle 9 del mattino, pure
se era andato a letto alle cinque, era già dietro alla scrivania, e dopo era
l’ultimo a uscire. E non c’era giorno che non passasse negli stabilimenti a fare
un giro tra gli operai. Vede, non ci crederà ma mio padre era indifferente al
successo, l’importante per lui era il rapporto con i suoi dipendenti, è per
questo che era molto amato. Perché era sempre presente alle loro necessità. I
sindacati avevano difficoltà, anche negli anni Sessanta, a entrare in fabbrica:
gli operai si compattavano attorno al padrone».
Meglio:
attorno al Cumenda, come lo chiamavano tutti. Fino a che fu nominato Cavaliere
del Lavoro. E decise di emanare una grida aziendale in 12 punti, il primo dei
quali recitava: «Il Cav. del Lav. Giovanni Borghi che abitualmente viene
chiamato Commendatore, a partire da ora, sia verbalmente, sia sulla
corrispondenza, sia al telefono deve essere chiamato “Presidente”; si provveda
pertanto affinché talune persone modifichino la loro abitudine a chiamare lo
stesso Commenda, Giuan o altro».
Il Giuan, ormai, era entrato nella leggenda: primo sponsor del capitalismo
«scarpe grosse e cervello fino», un po’ di paternalismo e tanto senso pratico,
aveva fatto i miliardi, le ville, l’elicottero e la Rolls Royce. «No, guardi:
papà era indifferente al denaro, non gli interessava, era uno capace di vendere
prodotti a costi bassissimi, scavalcando le logiche di mercato, pur di portare
un elettrodomestico in tutte le famiglie. Avrebbe potuto guadagnare molto ma
molto di più, solo che i soldi non erano tutto per lui».
Per chi ce li ha, i soldi non sono mai tutto. E infatti per Giovanni Borghi
c’erano anche - moderatamente - il gioco («La roulette: ma era un divertimento,
non un’ossessione. Se ha più vinto o più perso? Se la gente vincesse, i casinò
sarebbero tutti chiusi... però era abbastanza fortunato») e - smodatamente - lo
sport. Basket, calcio, ciclismo, boxe, canottaggio, ippica, atletica. Giovanni
Borghi, che quando usciva dall’azienda e scendeva in campo smetteva i panni del
Cumenda e vestiva quelli del patron, mise in piedi una polisportiva («oggi si
direbbe un team») che comprendeva squadre di pallacanestro («la valanga
gialloblu della Ignis che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei
Settanta vinse nove scudetti, quattro Coppe Italia, tre Coppe dei Campioni, tre
Coppe Intercontinentali e una Coppa delle Coppe»), di calcio («portò il Varese
in serie A»), di pugilato («tantissimi campioni, a partire da Duilio Loi») e di
ciclismo («tra i suoi pupilli, Antonio Maspes, il pistard più forte di tutti i
tempi, a cui fece da secondo padre; e poi lo spagnolo Miguel Poblet che vinse 23
tappe del Giro d’Italia, uno che ogni volta, prima di lanciare la volata, si
girava verso papà che lo seguiva sull’ammiraglia e gli diceva: “Commendatore, si
pettini che oggi andiamo in televisione...”»). Ancora oggi, anche ad Harvard nei
corsi di marketing si studia che fu il milanese Giovanni Borghi il primo a usare
la sponsorizzazione sportiva come (micidiale) arma pubblicitaria.
«Gli sport li amava tutti, ma gli atleti che amava di più erano i ciclisti e i
pugili, quelli che facevano più sacrifici». Come li aveva fatti lui.
Dallo sport, oltre al valore del sacrificio, il Cumenda trasse anche una sua
personale filosofia - “De Coubertin non lo conosco. Non mi basta partecipare. Io
voglio vincere” - che applicò in tutti i campi della vita, anche nel business.
Un giorno, in visita alla redazione del giornale francese L’Equipe, guardandosi
in giro pare abbia detto: “Se la custa chi inscì la baracca? La compri mi”.
«Era impressionante come, pur conoscendo solo il dialetto, sapesse tessere un
discorso in italiano affascinando tutti quelli che gli stavano attorno. Il suo
grande rimpianto era di non sapere l’inglese. Diceva sempre: “Va bene tutti i
traduttori del mondo, ma come glielo dico io è un’altra cosa...”. Sono sicuro
che non avrebbe avuto difficoltà a fare anche politica. Eppure non entrò mai
nelle stanze dei bottoni, perché sapeva che poteva farcela da solo».
Ce la fece
a lungo, ma non all’infinito. Negli anni Settanta, in parte per la crisi
economica in parte per le crisi cardiache, Giovanni Borghi fu costretto a
vendere il suo impero agli olandesi della Philips: «Non fu una scelta facile,
anzi. Se all’epoca io avessi avuto quattro-cinque anni in più, avrei combattuto
per fargli cambiare idea. Vendere fu un errore. Oggi la Whirlpool, che alla fine
assorbì tutto, è la Ignis di allora. Per papà fu un’enorme sofferenza, che lo
accompagnò fino alla morte».
Il Commendatore, ingegnere honoris causa, Cavaliere del Lavoro, Ambrogino d’Oro,
et coetera et coetera Giovanni Borghi morì nel settembre del 1975. «Abbiamo
bisogno di buoni esempi» scrisse, nella prefazione alla biografia di “Mister
Ignis” uscita qualche anno fa, uno che il Giuan lo conosceva bene, uno che
veniva anche lui dall’Isola e che aveva frequentato anche lui l’oratorio di
Sant’Antonio, la chiesa di via Sebenico, l’istituto dei Salesiani. Uno che in
tante cose ha seguito quell’esempio, firmato Silvio Berlusconi.
Gli Archivi di stato hanno fatto una parte importante:
Firenze ha accolto
l'archivio Sansoni, quello della Superpila, quello del Segnalamento marittimo
aereo (che integra l'archivio privato di Nello Carrara, propulsore di quella
azienda, donato dagli eredi), quello delle Officine Galileo (un residuo,
purtroppo, anche se costituito essenzialmente da un fondo di disegni assai
ampio), della Gover, dell'Emporio Duilio 48 (una istituzione per
Firenze, risalente
all'Ottocento) oltre a quelli, più recentemente censiti, della
Saimon-Medicea-Maconf (aziende del periodo 1950-80, che quindi documentano le
scelte industriali fiorentine degli anni del “boom”), del residuo della Fonderia
Officina Cure,
della compagnia di trasporti Meoni, della De Micheli impianti, ricco di migliaia
e migliaia di progetti che riguardano costruzioni di impianti civili in tutta
Italia, della compagnia di assicurazioni
Firenze, dell’azienda
di televisori
Emerson.
Ed ecco sulla sinistra ViaBardazzi, sede della prima ExEmerson. E� la prima volta forse che entro in questa traversa di via baracca dalla demolizione del vecchio edificio . L�edificio lo possiamo inserire senza problemi nel DelirioArchitettonico, nella categoria di quelli brutti e basta. Tanfo visivo di postmoderno anni ottanta della peggior specie, cromatismi accuratamente scelti nella gamma che vanno dal �grigio assessore� al �diarrea Toscana docg�. Sorpresa, non lo sapevo, ma l�edificio è della giunta Regionale Toscana. Le vetrine sono occupate da uno strano campionario di macchinari della Makita, trapani a colonna, torni e seghe a nastro� non sono sicuro se si tratta di una concessionaria o di un laboratorio di qualche tipo� Mi ricordo della prima volta che sono entrato nella ex-emerson. Era il 1989, lo stabilimento di elettrodomestici dismesso era stato occupato da pochi giorni, e l�edificio era ancora pieno zeppo di ciarpame e materiali. Avevo la cinepresa super-8 con me e credo di essere stato il primo a girare delle immagini in quel posto. Teoricamente su qualche scaffale polveroso potrebbero ancora esserci bobine�
Giorgio Tranzocchi (Roma, 19 aprile 1922 – Milano, 20 ottobre 1988) è stato un dirigente d'azienda italiano. Già fondatore sotto la guida di Lino Zanussi della Sèleco ha ricoperto incarichi dirigenziali in molte primarie aziende italiane.
Nasce a Roma, da una famiglia di fornai, nel 1922, dopo la seconda guerra mondiale si laurea in ingegneria all'Università di Pisa. La svolta della sua vita avviene quando alla fine degli anni '50, il cav. Lino Zanussi lo chiama a Pordenone con incarichi dirigenziali presso la Zanussi Elettrodomestici (oggi Elettrolux).
Negli anni '60 ottiene carta bianca per la creazione della divisione "Zanussi Elettronica" che creerà il marchio Sèleco. Negli anni '70 esce dal Gruppo zanussi e ricopre vari incarichi tra i quali amministratore delegato della Emerson di Firenze, presidente ed amministratore delegato della San Giorgio elettrodomesici di La Spezia, presidente della San Giorgio Pra (caldaie) di Genova. Entrato in ambito IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) - Finmeccanica sarà presidente della Galileo (lenti). Nel 1986 viene cooptato nella REL (ente per la ristrutturazione dell'industria elettronica italiana del gruppo IRI) e gli viene affidato l'incarico di salvare la Sèleco dalla situazione di crisi nella quale si trova. E' un ritorno alle origini, mentre l'ing. Tranzocchi sta lavorando alla costituzione di un'alleanza chiamata "polo italiano dell'elettronica" con Brionvega e Mivar, muore improvvisamente a Milano nel 1988.
È stato sposato con Silvia Antonucci, e ha tre figli: Daniela, Alberto e Fabio.
La Zanussi è stata un'azienda italiana produttrice di elettrodomestici che è stata acquistata nel 1984 dal gruppo svedese Electrolux. Fondata da Antonio Zanussi a Pordenone nel 1916, essa conobbe la trasformazione da azienda familiare a industria leader negli elettrodomestici grazie a uno dei figli di Antonio, Lino. Dopo la sua prematura scomparsa in un tragico incidente aereo (che in pratica decapitò buona parte del vertice della Zanussi) il gruppo continuò a crescere acquisendo anche alcune aziende concorrenti quali la Zoppas, la Becchi e tante altre arrivando a contare negli anni immediatamente precedenti all'acquisizione da parte degli svedesi, considerando anche le attività non strettamente correlate alla diretta produzione di elettrodomestici, ben 35.000 dipendenti. I marchi facenti capo all'ex gruppo italiano, soprattutto il marchio Rex in Italia, sono i maggiori marchi di apparecchiature domestiche per la cucina in Europa.
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Bravo Damiano! Anche Naonis è un marchio che non si vede più tanto spesso, nonostante sia ancora depositato dalla ditta Zanussi di Pordenone, che lo prese appunto dall'antico nome latino di quella città, e cioé Portus Naonis.